mercoledì 12 dicembre 2007

Materiale inviato dalla CMC 451


Quale cultura per l’ecologismo?

Il paradigma comunitarista e anti-utilitarista

Non è difficile, a nostro avviso, identificare con chiarezza ciò che non funziona nelle odierne società occidentali, nonché nelle culture che le informano e rappresentano.
La frammentazione sociale, la crisi della partecipazione alla vita pubblica, l’anomia generalizzata, l’isterilimento dei rapporti e dei legami sociali, il mito della self-realisation come corollario di ben più resistenti mitologie individualistiche: queste, sul piano sociale, le cause più evidenti del decadimento della qualità del nostro vivere quotidiano.
Sul piano più specificatamente teorico, i paradigmi di riferimento largamente diffusi e generalizzati nel più ampio spettro delle scienze umane applicano ormai sistematicamente una lettura largamente riduzionista dell’uomo, del suo agire e del contesto sociale in cui vive. In particolare le due formulazioni egemoniche (individualismo metodologico e teorie utilitariste) hanno prodotto una lettura dei fenomeni sociali che, per quanto lontana dal definire la natura umana nella sua multiforme complessità, é filtrata come nuovo universale culturale nelle profonde sfere dei rapporti e delle relazioni, divenendo a tutti gli effetti senso comune.
Da alcuni anni, al di qua e al di là dell’oceano, queste problematiche vengono sistematicamente affrontate da vere e proprie correnti di pensiero, che sono state capaci di produrre un corpus teorico che va imponendosi sempre più come nuova teoria critica della società. Ci riferiamo soprattutto allo statunitense “Communitarian Network” di Amitai Etzioni, Alasdair MacIntyre e Charles Taylor (nonché alle diverse realtà sociali e culturali ad esso collegate) e al francese “Mouvement Anti-Utilitarist dans les Sciences Sociales” di Alain Caillé e Serge Latouche.
Nella prospettiva del Mauss è necessario definire un nuovo paradigma per le scienze sociali, ormai completamente “contagiate” dalla dottrina utilitaristica originariamente propria della sola economia. Tale paradigma si sostanzia nella Teoria del Dono che affonda le sue radici nello studio della sfera di socialità primaria che si sottrae al dominio del mercato.

L’analisi comunitarista muove da una critica serrata alla dottrina individualista dei diritti, contestando l’assenza di una prospettiva che li leghi indissolubilmente ai doveri e alle responsabilità di cittadinanza. Il punto di partenza é che tutti ci troviamo a vivere in un contesto di tipo comunitario, un insieme denso di relazioni sociali e di rapporti di mutua assistenza. La condizione primaria di sopravvivenza di una comunità é che i suoi membri dedichino parte del loro interesse, energia e risorse a progetti comuni. L’attenzione esclusiva per gli interessi personali erode la rete di legami sociali da cui tutti dipendiamo, minando i fondamenti stessi della convivenza. Per queste ragioni i diritti individuali non possono essere preservati a lungo al di fuori di una prospettiva comunitaria.

Il degrado ambientale

La difesa dell’ambiente è un concetto che, oltre a rappresentare il fondamento dell’attività dei movimenti verdi, è oramai diffuso nella demagogia programmatica della maggior parte dei partiti politici occidentali e delle burocrazie amministrative che ne conseguono nei più diversi livelli di responsabilità territoriale.
I “costi dello sviluppo” sono presi in considerazione dai governi locali, nazionali e sovranazionali e dalla stessa organizzazione economica industriale, che tentano di sfruttare il pianeta in forme compatibili al mercato e alle risorse presenti. Un grosso ruolo, in tutto questo, lo svolge un’opinione pubblica preoccupata di perdere il “candore” di un consumismo “delicato” che concili la qualità delle merci con la quantità della massa degli aventi diritto; un bel rompicapo, tanto più se allarghiamo l’ottuso sguardo d’Occidente ai restanti 3/4 dell’umanità.
L’ecologia -la scienza delle relazioni tra gli organismi viventi e il loro ambiente naturale- ha generato molti figli e, soprattutto, un fraintendimento ed una eterogenesi dei fini. Il suo utilizzo strumentale ne ha snaturato il significato di critica complessiva al modello di sviluppo industriale.

Ambientalismo: un’ecologia funzionale

Il tentativo di conciliare la produttività industriale con la gestione dell’ambiente è l’ambientalismo. Esso si colloca in una prospettiva antropocentrica, grazie ad una visione scientifico-materialista della natura, per cui il deterioramento dell’ambiente compromette gli interessi umani di sopravvivenza. L’atteggiamento culturale, che ne consegue è largamente maggioritario, limitandosi a concepire la natura come un capitale da preservare da parte di un uomo “responsabile” e “preveggente”. Su questa base, le politiche liberiste tentano di inserire il principio chi inquina paga nelle giurisdizioni più avanzate, inconsapevoli di generare un ancor più perverso “mercato dell’inquinamento”, che mette d’accordo inquinatori ed inquinati fissando il prezzo per il danno causato. Le aziende vengono semplicemente indotte ad aggiungere il costo inquinamento tra i costi di produzione. Più articolata la proposta riformista per un ecosviluppo o modello di sviluppo sostenibile. La filosofia che sorregge questa proposta si basa sulla presa di coscienza che i costi della protezione della natura sono sempre inferiori ai danni che ne risulterebbero qualora non venissero adottati. In questo senso, si proietta lo sfruttamento dell’ambiente in una prospettiva temporale futura, per cui risulta necessario non compromettere la capacità delle prossime generazioni di far fronte alle proprie necessità.

In pratica si vuole semplicemente posticipare una scadenza ineluttabile. Nel frattempo, nonostante conferenze internazionali e grandi petizioni di principio, si è ovviamente incapaci di modificare il compromissorio modello di sviluppo dominante, che, anzi, si arricchisce di un vero e proprio “mercato dell’ambiente” o eco-business, che mantiene l’ambientalismo all’interno di un sistema di produzione e consumo, causa prima dei danni a cui tenta di porre rimedio.

L’ecologia radicale

L’unica posizione ecologista minoritaria, che non accetta compromissioni con il modello di sviluppo dominante e la tecnocrazia che ne è severa esecutrice è l’ecologia del profondo. Il termine “ecologia profonda” fu coniato da Arne Naess, nel tentativo di descrivere un approccio alla natura spirituale esemplificato negli scritti dei precursori americani Aldo Leopold e Rachel Carson. Naess cercava un approccio sostanziale alla natura tramite una apertura e una sensibilità fondante per noi stessi e la vita umana che ci circonda.
L’ecologia profonda oltrepassa l’approccio scientifico fattuale per raggiungere la consapevolezza del sè e della saggezza della terra. La critica all’antropocentrismo è fondamentale, l’uomo -olisticamente- viene inteso come parte di un tutto “cosmico”. L’implicazione di questo principio è l’ecocentrismo per cui la natura va protetta di per sè, per un suo valore intrinseco, indipendentemente da qualsivoglia utilità umana. Se arrechiamo danni alla natura, danneggiamo noi stessi.

Con questa impostazione sono identificabili -senza forzature e nella varietà delle proposte- svariati pensatori europei e americani come Bill Devall, George Session, Edward Goldsmith, Gary Snyder, Kirkpatrick Sale, Peter Berg, Ernst Schumacher, James Lovelock, Giannozzo Pucci. Il tipo di approccio ecologico alla realtà, che se ne ricava, è radicale: bisogna interamente ripensare l’attuale società, le forme culturali e il posto dell’uomo nella natura, uscire dall’industrialismo, dall’utilitarismo individualista, dal paradigma tecno-scientifico dominante. In pratica occorre agire sulle cause invece che sugli effetti.

Non c’è bisogno di nulla di nuovo, ma di riscoprire qualcosa di molto antico, arcaico: la comprensione della Saggezza della Terra, la consapevolezza del rapporto di simbiosi e armonia tra tutti i viventi. Andare all’origine delle cose significa, conseguenzialmente, decostruire la macchina tecnomorfa creata dalla scienza moderna, superando l’approccio parziale e riduzionista e immedesimandosi con il senso perduto dell’armonia tra uomo e natura, la visione metafisica della realtà divulgata dagli scienziati Fritjof Capra e Gregory Bateson.

Una visione sacrale

La maggior parte delle forme di religiosità animistiche e politeistiche tradizionali ha un carattere cosmico. L’universo viene da esse inteso come un insieme vivente correlato, del quale l’uomo è parte per il solo fatto di esistere. La natura è animata, il territorio si compone di luoghi sacri, il tempo è connaturato ai cicli cosmici celebrati con i riti e i sacrifici, che uniscono in un’eterna spirale il dare e il ricevere della vita e della morte, in una solidarietà profonda tra l’uomo e l’esistente.
La natura è emanazione spirituale a differenza dei monoteismi che subentreranno universalisticamente nella storia della umanità. Questi ultimi, infatti, intendono la natura come creato, prodotto del libero volere di un Dio. L’universo viene desacralizzato e svuotato delle sue forze magiche o spirituali, aprendo la strada -in una visione unilineare dello sviluppo storico- allo scientismo, che priverà di Dio una materia già morta e renderà l’uomo razionale un riferimento assoluto e disincantato. Il messaggio dell’ecologia profonda reagisce ad un antropocentrismo che fa dell’uomo un valore supremo, riallacciandosi a una concezione del mondo tipica della religiosità delle società arcaiche e tradizionali; queste, da sempre giudicate superficialmente “società chiuse”, si rivelano, al contrario, aperte alla totalità del cosmo e quindi malleabili, nell’organizzazione del corpo sociale, in una varietà di sfumature e di significati profondi che permeavano il senso del vivere quotidiano.

Disse il capo indiano Duvamish al presidente Pierce nel 1855: Noi siamo una parte di questa terra ed essa è parte di noi. Non è stato l’uomo a creare il tessuto della vita; ne è solo un filo. Ciò che voi farete al tessuto, lo farete a voi stessi”.

Partendo da questa interpretazione tradizionale della natura è possibile completare il concetto di uguaglianza biocentrica che altrimenti potrebbe essere intesa moralisticamente come una improbabile parità di diritti giuridico formali.
In realtà, la natura vale per quello che è, non esiste una natura buona o cattiva, che risente di una proiezione umanistica e, quindi antropocentrica. Conseguentemente, l’uomo, pur non essendo l’unico essere “biocosciente”, è sicuramente l’unico ad avere coscienza di questa coscienza ed è per questo che sulla base dei suoi presupposti naturali biologici, genetici, istintuali, rimane spiritualmente indeterminato e libero di scegliere.

Il tentativo di una riconversione ecologica deve consistere nel tentativo di ricreare nell’uomo la profonda consapevolezza di essere parte della natura, lasciandogli la libera volontà di decidere di farne parte armonicamente, sacralmente.

Il concetto di limite

Una cultura ecologista conseguente deve identificarsi con una opposizione all’ideologia economica dominante e ai suoi presupposti tecnologici e scientifici, ovvero alla concezione secondo cui la società degli individui -intesi come produttori e consumatori razionali- si fonda sul meccanismo autoregolativo del mercato.
In controtendenza, è possibile ritrovare un rapporto armonico tra cultura e natura in ambiti di reciprocità comunitaria, che, in chiave locale, subentri alla contrattualità mercantile e riducano la scala delle necessità fino a ricreare una situazione di interdipendenze tra regioni naturali. Vanno riconosciuti i diritti universali degli abitanti, legati al proprio territorio da un legame profondo, simpatetico, che si avvalga di tecnologie appropriate, e di un’economia che conviva con le risorse locali completandosi -nella minor quantità possibile- con beni di e produzioni esterne. Il senso del limite, la sobrietà esistenziale, la cultura delle differenze quale logica conseguenza della biodiversità, devono imperniare l’azione diretta ed esemplare di chiunque, gruppo o singolo, voglia sentirsi in connessione con la saggezza “omeostatica” della terra.

Tabella comparativa Atteggiamenti
Cultura dominante Ecologia profonda
Dominio sulla natura Armonia con la natura
Natura come risorsa Natura come valore in sé
Sviluppo economico Autorealizzazione economica
Sfruttamento delle risorse Limite naturale
Progresso tecno-scientifico Tecnologie appropriate
Consumismo Sobrietà/riciclaggio
Società stato/nazionale Comunità autonomismo/bioregione

Un messaggio minoritario?

Il tipo di comunità maggiormente in grado di cominciare il “vero lavoro” di formare una consapevolezza ecologica allargata si trova nella tradizione minoritaria. La crisi dello Stato nazionale, il rifiuto delle strutture centralizzate, ipertrofiche e della massificazione della società consumistica, va nel senso del riconoscimento delle lingue e delle culture regionali dei costumi e delle tradizioni locali come via d’uscita all’uniformazione e alla spersonalizzazione della monocultura industrialista. Non a caso, questo riconoscimento si accompagna al ritorno alla manualità, all’artigianato, ai saperi intuitivi, ai comportamenti spontanei che sostanziano la cultura vernacolare1 che Ivan Illich ha sempre indicato come serbatoio inesausto di praticità ecologica e di saggezza popolare.
L’essenza della tradizione minoritaria è una comunità capace di autoregolarsi. Le consuetudini condivise prendono il posto delle leggi imposte, l’autorevolezza prende il posto dell’autorità, la democrazia consensuale e qualitativa responsabilizza ogni libero partecipante alla vita comunitaria.

Le società originarie, tradizionali, antropologicamente indigene -spesso residualmente presenti in vari aspetti delle cultura popolare- forniscono numerosi esempi di ciò che si può intendere per tradizione minoritaria. Le comunità locali hanno provveduto all’esigenza della vita associata autoregolamentandosi, in solidale rapporto con la natura.
Il bioregionalismo è vecchio almeno quanto la coscienza dell’uomo poichè investe il sistema naturale in cui si abita della responsabilità sia del nutrimento fisico sia dell’insieme di metafore dalle quali il nostro spirito trae sostanziale sostentamento. Comprendere i cicli della natura significa cominciare a comprendere se stessi, il radicamento interiore che ci lega a quell’universo di sensazioni che compone l’animo umano e ci rimanda simbolicamente alle armonie cosmiche.

di Eduardo Zarelli

tratto da: http://it.novopress.info

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